KING: PET SEMATARY (1983), FACCIA A FACCIA CON LA NOSTRA PAURA PIÙ GRANDE
Diciamolo subito: se mai Stephen King ha scritto davvero un romanzo dell'orrore (e se li avete letti tutti anche più di una volta come me avrete qualche dubbio a riguardo), beh, è senz'altro Pet Sematary. Ma attenzione: non è affatto una questione di genere letterario. Dico "dell'orrore" non per dire che è horror, ma perché parla dell'orrore. È anche un romanzo horror, perché ci sono cose terribili, ma questa è solo una parte del tutto. C'è più che altro una devastante presa di coscienza dell'orrore che permea le nostre vite. Di orrori possibili ce ne sono tanti ma sappiamo benissimo qual è l'orrore supremo da cui tutti gli altri derivano. Quello che non capiremo mai, quello da cui non c'è ritorno: la morte.
Per questa ragione non è facile parlare di Pet Sematary liquidandolo con i soliti commenti su quanto siano solidi la trama, i personaggi o le inquietanti atmosfere in cui è immerso. Che sia tutto ben riuscito lo diamo quasi per scontato trattandosi del King degli anni Ottanta. Prima di proseguire un doveroso avvertimento: è impossibile parlare di questo romanzo senza svelare alcuni fatti sostanziali della trama, perciò se siete di quelli che hanno una fifa blu degli spoiler fermatevi qui e tornate dopo aver letto il libro. (Io non capirò mai questo spauracchio degli spoiler: nei libri davvero validi non importa quasi mai sapere in anticipo cosa accade, quanto come ci si arriva... Almeno questa è la mia modestissima opinione.)
Pet Sematary è la storia della famiglia Creed dal momento in cui si trasferisce in una casa di campagna nel Maine a causa del nuovo lavoro di Louis, un medico. Quando il gatto di famiglia viene investito dai camion che sfrecciano senza troppi riguardi sulla strada di fronte a casa, la piccola Eileen, già provata dal trasloco, è disperata. L'anziano vicino dei Creed, il signor Jud Crandall, introduce Louis in un cimitero per animali situato in mezzo al bosco, su un terreno appartenuto secoli prima agli indiani. Qui, dopo essere stato sepolto, il gatto ritorna in vita. Solo che non è più lo stesso gatto, ma qualcosa di intrinsecamente instabile, fuori posto. Louis è atterrito da ciò che ha fatto, ma non esiterà a rifarlo quando a morire sarà uno dei suoi cari. Incapace di accettarlo, fuori di testa dal dolore, Louis cede all'illusione di poter riportare le cose a com'erano prima... o quasi.
Leggendolo dovreste far caso al fatto che qui non c'è Il Cattivo, non c'è nemmeno Il Male inteso come la forza negativa che mette in moto gli eroi nell'eterno ciclo cosmogonico di luce/ombra o caos/ordine (che King esalta in altri suoi testi: L'ombra dello scorpione, IT, La torre nera). È un romanzo anomalo persino per il Re, pure abituato a rileggere in chiave moderna e quotidiana i topoi della letteratura gotica come vampiri, infestazioni, possessioni (Le notti di Salem, Christine, Cujo). Non è neanche del tutto "dentro di noi" il male da cui guardarsi, come lo era in Shining. Il focus di Pet Sematary è la giustapposizione tra vita e morte, una battaglia che semplicemente non esiste perché può essere solo indagata, esplorata, esasperata, ma non risolta. Non da parte di noi umani.
Molte delle scene concepite da King servono a mandare un messaggio chiaro ma tutt'altro che facile: il fatto che la morte, quindi l'orrore, faccia parte della vita, volente o nolente. Lo vediamo quando Louis cerca, senza successo, di spiegare alla sua figlioletta la morte accidentale del suo gatto. Lo vediamo quando Louis stesso perderà la cosa più preziosa che ha. Lo vediamo anche nell'orrore con cui viene ritratta la malattia della sorella di Rachel Creed, morta da giovane dopo atroci sofferenze che hanno segnato la psiche di Rachel al punto da renderla incapace di affrontare la morte anche da adulta. Questa parte, peraltro resa in modo agghiacciante anche nella versione cinematografica originale, è fondamentale per comprendere gli intenti del romanzo. In questa "storia nella storia" non vi sono nemmeno i filtri narrativi fantastici del cimitero indiano e dei morti che risorgono. Siamo a tu per tu con la realtà nuda e cruda, quella vera, quella che prima o poi affrontiamo tutti nelle nostre case: battersi contro la malattia, contro un'atroce e insensata sofferenza, sapendo che in realtà non c'è battaglia.
Nell'economia del libro questo episodio ci svela che è bene lasciare che le cose vadano come devono: parafrasando Jud, a volte la morte è meglio. Perché se si tenta di porre rimedio all'inevitabile, di opporsi a qualcosa che non è il male e non può avere opposizione in quanto parte della natura (come fa Louis Creed per ben due volte), ci possono essere conseguenze. Non perché i resuscitati vogliano fare una strage mossi da insensati intenti malvagi (come suggerisce l'orrendo remake cinematografico di pochi anni fa: stateci alla larga), ma perché chi ritorna vive una condizione innaturale, fuori posto, e come tale si comporta, rinnegando ciò che era, distruggendo ciò che amava, in perfetta specularità con la naturalità e la vita. Ognuno di essi, insomma, è un piccolo anticristo.
L'orrore dunque si cela al di là del confine che attraversiamo quando, con umana arroganza, vogliamo andare oltre la nostra sfera di competenza. A quel punto non c'è ritorno, non c'è più nulla che si possa fare, nemmeno l'accettazione è più possibile. L'orrore sta nell'essere perfettamente consapevoli di tutto ciò, e ciononostante nella situazione di Louis Creed ci comporteremmo esattamente allo stesso modo, ancora e ancora. L'orrore di Pet Sematary, in definitiva, sta nella sua abilità di cogliere il nostro più grande punto debole: la mortalità. King ficca il dito dentro a questa bruciante e inguaribile ferita, la fa sanguinare ancora un po', e ci costringe a guardare e annuire, impotenti.
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