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KING: USCITA PER L'INFERNO (1981), SCEGLIERE LA VIA DELL'AUTODISTRUZIONE



Pubblicato nel 1981, scritto dopo la morte della madre per cancro, Roadwork è un libro più di Stephen King che di Richard Bachman. A differenza dei predecessori, qui la penna di King è avvertibile sin dall'inizio: le lunghe digressioni sulle azioni e i pensieri di Barton Daves, il protagonista, le sue idiosincrasie un po' pazzoidi (dialoga con due lati di se stesso, George e Fred) dovute a un trauma psicologico (la morte del figlio), tipiche dei personaggi kinghiani. La stessa lunghezza del romanzo, maggiore degli altri usciti sotto pseudonimo, fa capire che, sebbene le intenzioni fossero bachmaniane nelle tematiche, la resa è kinghiana. Fosse stato uno scrittore in carne ed ossa, Bachman, questo romanzo potrebbe essere considerato un'evoluzione e una prova di maggior maturità stilistica dopo "prove generali" di gioventù, decisamente più condensate. Invece, dietro a Bachman c'è King... e in questo caso, come direbbe Jack Torrance (Shining), “giù la maschera!”
La disperazione è al centro di questo libro, e il lato violento della disperazione è il tema più caro a Bachman. Barton si adopera di proposito per perdere ogni cosa (moglie, lavoro, amici, soldi) quando lo Stato gli porta via la casa per farci passare una nuova autostrada. La sua nuova strada, invece, sarà quella dell'autodistruzione e del martirio. Anziché esplodere subito, come in Ossessione, il percorso della violenza qui è fatto di lacrime e rassegnazione, è un percorso lungo, sebbene le intenzioni di Barton le capiamo sin dalla prima pagina.
Ho detto prima che le prime opere di Bachman/King sono più condensate rispetto a Uscita per l'Inferno, nel modo di narrare e quindi nella lunghezza complessiva. Se King ha dato in seguito prova di essere capace di realizzare romanzi lunghissimi e di respiro molto ampio (It, L'Ombra dello Scorpione, il ciclo La Torre Nera), all'opposto le premesse di Bachman non aumentano il loro valore e la loro potenza dalla “larghezza” narrativa. Vale invece il contrario: i suoi primi romanzi sono efficaci per la loro natura breve, intensa, tagliente, persino fredda. Si nota un deciso miglioramento da Ossessione, che era anche troppo condensato, a La Lunga Marcia e L'Uomo in Fuga, ma Uscita per l'Inferno pecca di eccessiva prolissità, un eccessivo rimestare nelle spiegazioni che tentano di fornire una motivazione al dolore, alla disperazione, quando il Bachman precedente avrebbe dato più spazio all'azione pura e semplice, che spiega se stessa.
Incontriamo Barton all'inizio del libro in un'armeria a comprare armi che sappiamo utilizzerà per un gesto di follia. Lo ritroviamo alla fine del libro – spoiler – a fronteggiare il nemico fino a immolarsi per la sua causa in una scena di autentico western metropolitano. Tutte le pagine che ci stanno in mezzo sono incontri, dialoghi, pensieri, eventi più o meno rilevanti, troppo dilatati, che avrebbero tratto maggior beneficio da un editing severo. Allora il singolo seme di Bachman, sepolto nel fiorente orto di King, sarebbe stato svelato per intero.
Con questo romanzo King, nascondendosi alla vista grazie allo pseudonimo, ha tentato forse di esorcizzare il lutto materno. Di sicuro ha tentato di mettere in scena, in un contesto estremo, le difficoltà vissute in prima persona quando, prima di diventare un famoso e ricco scrittore, manteneva a stento la famiglia lavorando in una lavanderia (e il protagonista, Barton, lavora infatti in una lavanderia). Al di là della riuscita o meno dell'opera nel filone bachmaniano, il libro è interessante (se si ha pazienza di arrivare alla fine) per il contesto che offre, piccolo ritratto delle strade americane di inizio anni 70, popolate da rollingstoniani e lavanderie a gettoni, padri di famiglia in difficoltà, business-men imbonitori da cui guardarsi, e una politica spietata. Forse perché il libro è stato scritto più o meno in quegli anni, non c'è alcun senso di nostalgia, nessuna sensazione particolarmente positiva: quella verrà dopo, in libri come It, Cuori in Atlantide o i recenti 22/11/63 e Revival. In questo, sì, è un testo di Bachman.

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