NEIL YOUNG & CRAZY HORSE: AMERICANA
Un disco di cover mancava nella carriera di Neil Young. Una mancanza di cui non sentivamo la mancanza, a onor del vero, perché da una macchina a ciclo continuo come Young non ci si sarebbe mai aspettata una “pausa di riflessione” e la scelta di canzoni altrui piuttosto che la propria, rinnovata ispirazione. Per fortuna, ora che il disco di cover è nelle nostre mani, sappiamo che non è andata esattamente così, che esso rappresenta solo una delle tante sue esilaranti deviazioni dalla linea retta della strada.
Già all'inizio dell'anno scorso
(o era il 2010?) Young aveva tentato una reunion con i Crazy Horse,
invano. Poi quando il momento è stato buono e l'alchimia ha
ricominciato a funzionare (dai tempi del tour di Greendale, 2003), il
Cavallo ha ingranato. Presumibilmente Neil non è arrivato con nuove
canzoni già chiare nella mente, quindi il Cavallo ha iniziato a
jammare (come d'abitudine). Chissà come, chissà da dove, Neil ha
poi tirato fuori “Oh Susannah”, “This Land Is Your Land”,
“Wayfarin' Stranger” e altre folk-songs
americane e, di colpo, ecco il disco di reunion della band. La natura
ha fatto il suo corso, comunque, e jammando ecco che nuove canzoni
hanno preso forma e un secondo album (molto lungo, a sentire le prime
indiscrezioni) ha immediatamente fatto seguito ad Americana. Arriverà
alla fine dell'anno, o forse il prossimo, e sarà il vero
ritorno dei Crazy Horse.
Dunque,
Americana è una sorta di “prova generale” degli Horse dopo un
decennio di ruggine (la quale, lo sappiamo, non dorme mai, ma Talbot,
Molina, Sampedro e Young sanno come cospargersi di antiruggine).
Come
giudicare Americana? Non è facile data la sua natura. O magari è
più facile, se consideriamo che il contenuto non è così
importante, non è necessario ponderarlo troppo dato che non è
farina del nostro songwriter. Ad essere importante, più che
altro, è la forma in cui ci viene presentato. A rigor di logica essa
dovrebbe essere nuova, originale ed interessante per poter
giustificare il recupero di brani tradizionali arcinoti.
Seguendo
questo ragionamento, il sound dei Crazy Horse (una garanzia anche per
i non-younghiani-incalliti) fa di questo album un ottimo album. Il
loro ritorno è in grande stile, è quello che ci si aspetta, nodoso
e furente, ma anche sorprendentemente curato. Non esito a dire che
l'incisione e il missaggio di Americana, nel suo complesso, sono
migliori degli ultimi dischi di Young (direi a partire da Living With
War), e questo nonostante la sporcizia e le imprecisioni degli Horse.
Cioè siamo tornati a un equilibrio nell'equazione
“spontaneità+postproduzione”, un po' come in Ragged Glory o
Broken Arrow, dischi “belli” (semplicemente belli, sì) che vanno
dritto al segno ma senza fretta (a livello sonoro non si può dire lo
stesso per Living With War o Chrome Dreams II). L'alchimia, dicevo, è
tornata in grande stile, dentro e fuori dalle sessions.
Date
queste premesse, il trattamento dei traditionals
è per forza interessante: è quasi logico che i Crazy Horse
snatureranno queste (apparentemente) felici canzonette per farne
qualcosa di diverso, di più terreno e di più oscuro. A riprova di
ciò, Young ha dichiarato che le sue intenzioni erano esattamente
queste: riportare le ballads
alla loro essenza originale, decisamente più triste e nera del
colore con cui sono state ridipinte nel corso dei decenni in nome del
solito, ipocrita buon costume (in USA sono canzonette che i bambini
cantano nelle scuole).
Basta
leggere i testi per rendersene conto, rapportandoli alle tonalità
prevalentemente in minore che Young ha impresso agli arrangiamenti. E
il gioco è fatto, con un punto in più assegnato per la giusta
“manomissione” del contenuto, che neanche ci aspettavamo. “High
Flyin' Bird” è un buon esempio dell'opera nel suo complesso, uno
dei punti più alti dell'album (almeno a mio parere); è una canzone
che sembra venire dalla penna di Young e che il sound del Cavallo
rende magistralmente come rendeva “Down By The River”.
Analogamente, la lunga marcia di “Tom Dula” potrebbe rientrare
tranquillamente tra le sgangherate cavalcate della band. Un'altra
highlight è
certamente “Oh Susannah”, dal timbro funky per nulla
ricollegabile al tradizionale ben noto anche a noi italiani.
Sì,
bisogna ammettere che la scelta dei brani, per la maggior parte,
calza con il trattamento garage
rock
dei ragazzi. Non si distinguono poi così tanto da canzoni partorite
in proprio. Già questo fa di Americana un album riuscito; la stessa
cosa che si è detta per Underwater Sunshine dei Counting Crows
(disco di cover con cui sono usciti quest'anno) che fa la sua bella
figura in mezzo ai loro album come se ne fosse semplicemente
un'estensione.
Anche
Americana è un'estensione. Omicidi e amori spezzati, minatori e
simboli di libertà, morte e fede: murder
ballads, ministrels, gospel
diventano gli aggettivi per descriverlo. Dimenticatevi di allegri
coretti che intonano “oh Susanna non piangere perché...”.
Sarebbe devastante pensare che un disco di Neil Young (& Crazy
Horse!) possa essere così. No, qui abbiamo un esempio della canzone
della vecchia America, quella dei carri coperti più volte menzionata
da Young nelle sue canzoni del passato, confezionata in una veste
rockettara, spartana, incisiva. Forse semplicemente un onesto ponte
fra due epoche che hanno ancora molto in comune, ponte che collega
canzoni e parole tutt'altro che obsolete. Sarà solo un caso,
infatti, che Young abbia scelto di inserire il rockabilly di “Get A
Job” (ovvero “Trova un lavoro”)? O un'ennesima reintepretazione
di “This Land Is Your Land”? E persino “God Save The Queen”?
C'è
qualcosa che va oltre il semplice gusto di riunire la band e suonare
ad alto volume questi vecchi pezzi, allontanandosi dalle
preoccupazioni di nuovi brani propri. Non c'è bisogno di grandi
propositi, basta saper dosare gli ingredienti giusti e cogliere le
idee in corso d'opera. Young ha sempre dimostrato di saperlo fare;
Americana dimostra che l'ha fatto, e l'ha fatto con i Crazy Horse, e
il risultato è interessante al di là delle aspettative (perché,
siamo onesti, all'inizio cosa abbiamo pensato noi tutti, quando
abbiamo saputo di cover di “Oh Susannah” e simili?). Resta un
disco di cover, dunque non un disco cardine, ma segna un altro punto
per Neil alla faccia di tutti quanti.
Non mi voglio dilungare sui singoli brani perché in fondo è inutile: il mosaico ha un senso d'insieme più importante delle singole parti. A mio parere, comunque, sono pregevolissime l'incalzante “Gallows Pole”, la dolce “Wayfarin' Stranger”, le già citate “High Flyin' Bird”, “Oh Susannah” e “Tom Dula”. Poi le tonanti cavalcate “Clementine” e “Jesus' Chariot”. Un po' meno (forse per via della ripetitività sfrenatamente country) “This Land Is Your Land” e “Travel On”. “Get A Job” è davvero sgangherata ma piacevole, e “God Save The Queen”... be', de gustibus.
Dopo
Le Noise (2010) che inaugurava il decennio in una direzione
(eccezionale, secondo me) del tutto nuova, Americana è un sano
sguardo al passato a livello tematico ma soprattutto a livello
concreto e sonoro per Young, ed è anche un passo avanti verso una
nuova meta con gli Horse. Cioè verso la realizzazione di quelle
promesse che già Le Noise faceva, ovvero nuovi traguardi artistici e
personali alla fine di una carriera durata mezzo secolo. Io ne sono
convinto: se non sarà col prossimo disco degli Horse, sarà con
quello dopo (magari un disco acustico?).
Un
ultimo consiglio gratuito: andate ad ascoltarvi anche la Jam
(intitolata Horse Back) pubblicata in streaming dal sito ufficiale;
35 minuti di jam-session che
sfociano in una torrenziale “Cortez The Killer”. Speriamo possa
vedere la luce su un disco come bonus
material,
se no resta sempre Archives Vol.5 (qualcuno ha una macchina del
tempo?).
Leggi anche:
A Treasure (recensione)
Le Noise (recensione)
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