IL GRANDE FRATELLO È IL NOSTRO MIGLIORE AMICO
Storicamente, il potere si è sempre manifestato come negazione della libertà: imponeva l’obbedienza attraverso ordini e divieti, violenza e repressione, cioè annullando la volontà (e talvolta anche la vita) altrui. Ne ho parlato ampiamente nel primo post di questa serie, citando George Orwell e il suo 1984. Questa forma di potere veniva esercitata sul corpo fisico. Oggi è considerata inefficiente, ma nelle sue forme disciplinari più moderne ha purtroppo rivelato un aspetto chiave: cioè che la popolazione umana è una massa produttiva e riproduttiva che vale la pena amministrare con una certa cura.
Il contrario del Grande Fratello orwelliano (il potere disciplinare) si chiama smart power, o psicopolitica, ed è quello che predomina nella società neoliberista moderna. La psicopolitica non è basata sulla forza: non esclude, non proibisce, non censura, non si oppone alla libertà. Sfrutta invece la libertà per assicurarsi che le persone si subordinino volontariamente, come farebbe un dipendente nei confronti di un datore di lavoro di buon cuore. È una forma di potere che opera non sul corpo, bensì sulla psiche, in modo sottile, flessibile e astuto. Non impone il silenzio, anzi, invita costantemente a confidare e condividere opinioni, bisogni, desideri e preferenze. Cerca di attivare, motivare, ottimizzare, piacere, sedurre, soddisfare, e guidare la volontà delle persone a proprio beneficio. E realizza efficacemente tutto ciò attraverso internet.
La psicopolitica è un Grande Fratello più potente perché non viene percepito. Sfruttando e promuovendo la sua immagine di libertà, la vera libertà va in crisi, poiché la libera scelta viene sostituita da una libera selezione entro una rosa di opzioni ben precise e pre-selezionate. Il “like” dei social media è un po’ il simbolo di questo potere, almeno secondo il filosofo coreano Byung-Chul Han, autore di Psicopolitica. La svolta verso questa forma di potere è infatti legata alla produzione immateriale che domina il capitalismo contemporaneo, dove la produttività non viene più migliorata rimuovendo ostacoli fisici, bensì ottimizzando i processi. La disciplina ha ceduto il passo al potenziamento mentale: il corpo non è più il fulcro produttivo, ragion per cui può diventare oggetto di culti estetici o salutistici le cui “chiese” sono la chirurgia e le palestre.
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Morpheus ha sbagliato |
La psicopolitica ha compiuto il passo successivo rispetto alle politiche disciplinari del passato, rivelando l’essere umano come oggetto di capitalizzazione e sfruttamento nella sua totalità: la mente ha ormai superato il corpo in termini di potenziale produttivo. L’ottimizzazione del sé, ad esempio attraverso workshop e seminari di formazione che molte aziende organizzano per i propri dipendenti (per questo ritenute “moderne” e “progressiste”), fa esattamente il gioco dell’imperativo capitalista: promuovere il perfetto funzionamento all’interno del sistema, smussando gli spigoli ed eliminando gli errori in modo terapeutico.
La negatività è il principale ostacolo da rimuovere: la psicopolitica ambisce interamente alla positività, ma un’esistenza fatta solo di emozioni positive è impossibile, perché il dolore è alla base dell’esperienza umana (di questo tema Han parla ampiamente in un altro suo testo, La società senza dolore, di cui vi parlerò in un futuro post).
Secondo la logica di mercato, tutto è misurabile e comparabile, compresi gli aspetti della persona. Tuttavia, è ovvio che una tale “ottimizzazione del sé” non è guidata dalla ricerca di una vita felice, ma solo da una logica di quantificazione e produttività. Una strada autodistruttiva, va da sé, causa di patologie psichiche dilaganti come il burn-out e la depressione, soprattutto nei Paesi che del successo personale hanno fatto una vera e propria pietra angolare sociale, come Stati Uniti e Giappone.
Al capitalismo manca la narrazione della “buona vita”, perché la sua principale preoccupazione è la sopravvivenza a fini produttivi e consumistici. Il buon Morpheus, in Matrix, sbagliava: le macchine non ci hanno trasformato in batterie, piuttosto in banconote. E forse non c'è stato nemmeno bisogno delle macchine.
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