CONTENGO MOLTITUDINI: TRA PESSOA, LYNCH E "THE LIFE OF CHUCK"


Scriveva Fernando Pessoa in Il libro dell’inquietudine: “Non ho mai avuto altra preoccupazione vera se non la mia vita interiore. (…) Dentro di me ho un mondo fatto di amici con vite proprie, reali, definite e imperfette. (…) Un Portogallo che esiste dentro di me. (…) E quando sogno tutto questo, passeggiando in camera mia, parlando ad alta voce, gesticolando (…) mi rallegro e mi sento realizzato, (…) e provo un’immensa, un’incomparabile felicità reale.”
C’è un intero mondo dentro di te, che tu lo voglia o no, fatto di ciò che ricordi e ciò che immagini, di strade che non hai preso e di mete che hai raggiunto. Puoi rifugiarti in esso in modo consapevole o inconsapevole. Puoi considerarlo un isolamento difensivo o un’apertura verso confini più grandi. Puoi lasciare che prenda il sopravvento o semplicemente che ti indichi la via, o puoi essere tu per primo a reclamarlo come tuo territorio.
Le storie hanno saputo esprimere l’idea che vi sia un universo dentro ognuno di noi in modi diversi. L’uscita dell’adattamento di The life of Chuck, magnifico racconto di Stephen King diventato un bel film di Mike Flanagan, e la mia recente lettura del Libro dell’inquietudine di Pessoa, mi hanno innescato queste considerazioni e la voglia di metterle nero su bianco.


1
Pessoa ci parla dell’essere consapevoli della propria mappa immaginaria, con i cui abitanti il poeta instaurava veri e propri dialoghi. Suppongo, un po’ come per i tanti pseudonimi da lui utilizzati per le pubblicazioni, che fossero tutti alter ego di se stesso, incarnazioni dei diversi lati della sua personalità (lo stesso Libro dell’inquietudine sarebbe il diario di Bernardo Soares, non di Fernando Pessoa). Pessoa non era certo un pazzo che andava in giro dicendo di vedere persone immaginarie. L’isolamento era per lui una strategia difensiva consapevole. “Se potessi incontrare gli amici che ho sognato, passeggiare per le strade che ho creato. (…) Alzo la testa dal foglio su cui scrivo… (…) Dover essere qui a scrivere questo perché farlo mi è necessario all’anima.” Il suo processo di consapevolezza passava attraverso le parole – la voce, la scrittura – e non poteva esimersi da esse. “Non ho mai voluto essere altro che un sognatore”, scriveva. “Sono appartenuto solo a ciò che non esiste (…) e a ciò che non ho mai potuto essere.” E ancora: “La mania di creare un mondo falso mi accompagna ancora e mi abbandonerà soltanto alla mia morte.” Pessoa dava certamente maggior importanza al suo mondo interiore che non a una squallida vita quotidiana, tema che ricorre lungo il Libro. D’altro canto, se non fosse stato così, non ci avrebbe lasciato pagine di poesie e di prosa così sublimi. Dunque era ben cosciente di contenere moltitudini, tanto che diede nomi a ciascuna di esse e le esternò con le parole e con i fatti. Mi piace pensare che Pessoa sia stato capace di schivare la terribile rinuncia dell’adulto nei confronti del potere di immaginare e di esteriorizzare il proprio immaginario (per esempio parlando con interlocutori inesistenti), tipici di quando si è bambini.


2
Chuck Grantz “contiene moltitudini”, ma non lo sa, almeno non all’inizio, e non a livello razionale. Però lo viene a scoprire, lo sospetta, se lo chiede, come tutti, quando si pone le giuste domande, quelle che non puoi schivare quando guardi la volta stellata e cerchi di percepire la tua dimensione nell’universo. Quel genere di domande che apre le porte, per qualche istante, a percezioni più ampie, e all’inevitabile domanda successiva, cioè se si tratta davvero di percezioni più ampie o piuttosto di illusioni del nostro cervello che vuole ribadirci i suoi cranici confini. La vita di Chuck è il modo più poetico con cui Stephen King ci dice che tanto noi potremmo contenere interi universi in ciascuno dei nostri atomi, quanto il nostro universo potrebbe essere l’ultimo atomo dell’unghia del mignolo di un qualche gigante cosmico. Un po’ come la biglia che l’alieno rimette nel sacchetto alla fine di Men in Black, ricordate? Ma il mondo dentro di noi c’è, e ci parla, di solito nel silenzio, quando siamo soli, o nel dolore, quando la bussola impazzisce e ogni altra cosa perde di importanza. Nelle situazioni, cioè, in cui può rivelarsi senza svelarsi davvero, quando siamo disposti a tendere l’orecchio alle moltitudini che ci sussurrano, indicandoci la via. King ci dice che la fine di ognuno di noi è la fine di un’unicità resa possibile solo dalla complessità con cui è forgiata. Perché noi siamo tutto ciò che, in ogni istante, in ogni ricordo, ci costituisce. “Le persone che conosci, tutto quello che vedi, tutto quello che sai” dice la maestra al piccolo Chuck, in uno dei momenti forse troppo didascalici del film. “Ogni anno che vivi, quel mondo diventa sempre più grande, luminoso e complesso. Costruirai città, paesi e continenti, e li riempirai con persone e volti, reali e immaginari.”


3
L’arma finale che il nostro cervello dispiega quando non ha vie d’uscita si chiama fuga psicogena.  È ciò che capita a Fred, protagonista Strade perdute di David Lynch, dopo l’apparente omicidio della moglie, di cui non serba alcuna consapevolezza razionale. Appena viene messo in cella, sotto i flash del neon, diventa qualcun altro, entra in un’altra vita, ed è di nuovo libero. E così anche il film diventa qualcos’altro, entra in un’altra storia, completamente diversa se non per gli inquietanti elementi in comune che presto iniziamo a notare.
La fuga psicogena è quando il mondo interiore diventa l’unico mondo possibile, e perciò l'unico mondo vero: soverchia i sensi, si sostituisce alla realtà in modo totale, isolando l’anima e il corpo di Fred e degli spettatori, ugualmente tramortiti (Lynch insegna che il linguaggio è anch’esso contenuto). Fino all’inevitabile momento in cui il castello crolla, assieme all’ultimo baluardo di sanità mentale, forse spazzato via dalla sedia elettrica a cui Fred è destinato.
Nella fuga psicogena, le moltitudini escono e prendono il comando, spodestando la parte razionale per l’ultima folle corsa prima di lanciarsi giù dal dirupo.


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