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DAHMER: LA MINISERIE

Lo scorso autunno per Netflix è uscita Dahmer, vera storia del serial killer Jeffrey Dahmer, il "cannibale di Milwaukee", responsabile di diciassette omicidi tra il 1978 e il 1991. Gli autori della serie sono Ryan Murphy e Ian Brennan, mentre il volto di Dahmer è quello di Evan Peters. Vi rimando a Wikipedia per un riassunto della trama e altre info sulle inevitabili polemiche che ha generato. Come ho già detto per Tokyo Vicea me interessa parlare della serie in quanto tale, quindi vi dirò quali sono i tre motivi per cui ve la consiglio.


1. Non è crime. La principale differenza con qualsiasi serie crime è che Dahmer viene raccontata dal punto di vista interno, quello dell'omicida, anziché quello della polizia. Questo è il racconto di Jeffrey Dahmer in prima persona, e della sua famiglia, non di un'indagine. È la storia di un individuo spezzato, di una psicosi radicata nell'infanzia, di una vita deviante. Dahmer è una persona malata ma dotata di raziocinio e sentimenti come chiunque altro. Uccide per colmare un vuoto, e sempre per colmare un vuoto "fa sue" le vittime in un modo unico e devastante. Dunque non il semplice Mostro che emerge dal fuorviante sottotitolo, unica scelta sbagliata di tutta l'operazione. Un equilibrio difficile, perché se da un lato l'intento di un racconto di questo tipo è quello di creare empatia tra protagonista e spettatore (seguendo i sempre validi insegnamenti della Lolita di Nabokov), dall'altro il rischio insito in simili operazioni è quello di spingersi troppo in là e finire per ritrarre l'omicida come una pura vittima delle ingiustizie subite, invitandoci così a giustificare le sue azioni. Ma Dahmer riesce a non deragliare lungo questa china, e mette in chiaro le cose con lo spettatore già nel primo episodio: "merito di morire per quello che ho fatto" dice Dahmer steso a terra dalla polizia che lo ha finalmente beccato. Già sappiamo ciò che ha fatto e che riceverà la punizione che merita: adesso siamo più che disposti a conoscere i perché. Non per il gusto della lacrima o della spettacolarizzazione della morte, alla base dell'audience dei telegiornali e di programmi come Chi l'ha visto, ma mossi dalla stessa curiosità scientifica alla radice degli studi pioneristici di John E. Douglas sulla mente criminale (per capirci, quelli raccontati in Mindhunter, un'altra serie che merita, anche se più didattica e distaccata, proprio perché raccontata dal punto di vista del detective).

Il vero Dahmer e l'interpretazione di Evan Peters

2. (Quasi) niente sangueNonostante ci racconti una delle vicende più sanguinarie che siano mai avvenute, la messa in scena di Dahmer non punta mai a generare raccapriccio dalla visione gratuita ed enfatizzata di sangue o viscere. Il più superficiale dei meccanismi per provocare orrore e disgusto viene sapientemente evitato in nome di un'estetica raggelante giocata sulla tensione psicologica, l'espressività dei volti e la gestualità degli attori, i luoghi e la loro costruzione di luce e ombra. È una scelta estetica coraggiosa e pienamente riuscita. Non serve spettacolarizzare la brutalità dell'omicidio, men che meno portarla ai parossismi del pulp, per raccontare la violenza intrinseca, e ben più profonda, in Jeffrey Dahmer. Anzi, se così fosse, ne uscirebbe banalizzata e già vista, alla stregua di qualunque crime VM14 o di prodotti "leggeri" come Kill Bill. Sarebbe imperdonabile, considerato ciò di cui parla. Da questo punto di vista si può dire che Dahmer sia un antidoto all'estetica tarantiniana. L'impressione è la serie che non si dimentichi mai di stare raccontando di persone realmente esistite (pur con qualche piccola licenza narrativa nelle dinamiche dei fatti) e non tralasci nemmeno per un istante il rispetto necessario a farlo. L'unica nota stonata a questo riguardo, di nuovo, è quel sottotitolo, Mostro, che fa pensare a tutt'altro tipo di prodotto.

3. C'è del marcio in USA. La critica alla società statunitense degli anni Ottanta e Novanta è un elemento fondamentale. La serie dipinge una realtà storica terribile, uno squallore che, almeno in parte, è ancora tale ai nostri giorni. Parliamo della recidività americana nel discriminare e ghettizzare i neri, le minoranze immigrate, gli omosessuali, e nel legittimare corruzione e abuso di potere da parte della polizia. Il contesto urbano e sociale in cui Dahmer vive (e uccide) è uno degli aspetti più tragici della sua storia, e non perché, essendo bianco, lui fosse dalla parte sbagliata, e nemmeno perché, essendo gay ed emarginato, ne fosse in parte vittima. Ma perché quel contesto ha costituito la proverbiale fetta di prosciutto davanti agli occhi dei poliziotti che hanno avuto molteplici occasioni per accorgersi di ciò che stava succedendo e fermare la catena di omicidi prima di quando è realmente avvenuto. Invece hanno guardato da un'altra parte. E, per fortuna, gli autori non hanno addolcito la pillola.

Nota a margine, la serie è musicata da Nick Cave & Warren Ellis (Blonde, The Road, The Proposition, L'assassinio di Jesse James, Mars). Non sarà il loro lavoro più bello ma i loro soundtrack meritano sempre di essere segnalati.



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