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TOKYO VICE: STAGIONE 1

Nel 1999, il giovane giornalista americano Jake Adelstein si trasferisce a Tokyo e supera l'esame per lavorare al più importante quotidiano giapponese: è di fatto il loro primo giornalista gaijin (straniero). Le circostanze lo mettono subito su una pista che porta al mondo oscuro e pericoloso della Yakuza giapponese, l'invisibile sottobosco criminale di una città dove "l'omicidio non esiste". E lui ci si getta anima e corpo. Per questo viene preso sotto la propria ala dal detective Katagiri, più vecchio di lui e certamente più cauto. Tra i vari personaggi che circondano Adelstein, seguiamo anche una linea narrativa interna alla Yakuza, quella di Sato, un sicario del clan del boss Ishida che gira nei locali del quartiere per raccogliere il pizzo, e in questo modo conosce Samantha, di cui si innamora, e anche Adelstein, con cui stringe un'amicizia scomoda.
La serie è tratta dalle reali memorie di Adelstein. A questo proposito ci sono già state polemiche su quanto la storia raccontata sia più o meno fedele al vero o romanzata. Ma questa è un'altra storia: io ne parlerò per ciò che è, ovvero una serie tv di HBO.


Perché Tokyo Vice è da vedere? Perché è una storia di Yakuza, di scontri fra clan e detective corrotti? Perché è un noir sotto le luci al neon di Tokyo? Magari sì, anche per questo, ma non è tutto. Tokyo Vice coinvolge prima di tutto perché gli occhi di Adelstein sono i nostri. Gli occhi dell'occidentale (americano) archetipico, affascinato dal Giappone senza conoscerlo realmente, dalla sua facciata perfetta e pulita. Adelstein cerca nel Sol Levante la fuga dal conosciuto, dall'Occidente, il vivere lontano da casa, il rifugio in una cultura "diversa", la risposta all'irrequietezza esistenziale di chatwiniana memoria, che ben traspare dalle sue brevi e frustranti telefonate a casa.
Ma poiché Adelstein sceglie la carriera di giornalista di cronaca nera, la sua indole è curiosa (forse un po' morbosa) di intravedere lo sporco nascosto, così ben presto si accorge che c'è una vera montagna di merda spazzata sotto al tappeto dell'ordine e della discrezione giapponesi.
I personaggi sono tutti cazzuti come nei migliori action, ma i più sfaccettati e interessanti sono Sato e Samantha. Il primo vive un costante e irrisolto conflitto: da una parte il rispetto e l'orgoglio di ascendere la gerarchia del clan di Ishida, dall'altra la disperazione e la solitudine per una famiglia che per questo lo disconosce. Non si sa fino a che punto la sua affiliazione con la Yakuza sia stata una scelta o una necessità, il che lo rende un personaggio ambiguo, versatile, che potrebbe svilupparsi enormemente.
A scombussolarlo ulteriormente arriva Samantha, donna determinata e dalle idee chiare, dal passato nebuloso, sulle cui spalle ricadono le conseguenze quotidiane, pragmatiche, della battaglia "politica" che infuria sopra di lei, che Adelstein e Katagiri stanno combattendo da posizioni più alte e (relativamente) sicure, e nel caso di Adelstein anche con una certa, giovanile supponenza e impulsività. Anche Samantha ha ampi spazi evolutivi, che mi auguro vengano sfruttati nelle proseguo della serie.


Il primo episodio lo dirige Michael Mann e, porca miseria, si vede. Dal secondo serie cambia di mano e da un punto di vista scenico si adagia e si conforma a un format più classico. Il che è piuttosto fastidioso, oltre che inusuale: tutte le serie alternano registi diversi ma c'è sempre un equilibrio stilistico volto a mantenere una coerenza, un registro, un'armonia complessiva. Tra il primo e il secondo episodio di Tokyo Vice c'è un abisso, ma pazienza. La forza complessiva ce la fa divorare fino alla fine.





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